Voucher: un argomento che, anche dopo l’abolizione ufficiale dei famigerati buoni-lavoro, continua a tenere banco, facendo alzare non poche discussioni. L’ultimo allarme riguarda il rischio di un probabile e netto aumento dei lavoratori in nero. Sono infatti circa 870 mila le persone che, dopo l’abolizione dei voucher, rischiano di essere spinte verso il lavoro non regolarizzato.
A sostenerlo è stata recentemente una ricerca della Fondazione studi consulenti del lavoro, analisi arrivata proprio mentre il Governo sta ancora cercando di capire come e quando intervenire per sostituire i buoni a ore, cancellati con il decreto legge che ha disinnescato il referendum della Cgil.
Gli 870 mila a rischio sono i disoccupati, occupati e pensionati che nel 2015 hanno utilizzato i buoni. Tre categorie che rappresentano il 63% del totale degli utilizzatori di voucher e che hanno uno “status incompatibile o non conveniente rispetto a un lavoro dipendente di tipo tradizionale”. Spariti i voucher, in parole povere, difficilmente avranno un contratto vero e proprio.
Andando più nello specifico, possiamo notare come i disoccupati (250 mila), che con i voucher potevano ancora contare sull’indennità di disoccupazione, con un contratto vero la perderebbero. Gli occupati (500 mila) potevano poi aggiungere i buoni allo stipendio del lavoro principale, cosa impossibile con un altro stipendio e un altro contratto.
Per i pensionati, altri 100 mila, il discorso è anche più complesso: con i voucher avevano dei mini contributi previdenziali a fondo perduto, fattore che li rendeva “molto convenienti” per le aziende. Con un altro contratto costerebbero molto di più. Il risultato è che la cancellazione dei buoni lavoro farebbe finire “nel nero” tutti quei lavoretti che prima consentivano di arrotondare.
In attesa delle decisioni ufficiali del Governo, alcune alternative ai voucher vengono già sperimentate da alcune aziende che vogliono assumere un lavoratore in modo saltuario. Ma, sempre secondo il recente studio, si tratta ancora di qualcosa di molto teorico.
Il contratto a termine è troppo “rigido”, perché ha una durata minima e prevede un intervallo di almeno 20 giorni tra un periodo e l’altro. Il lavoro a chiamata prevede invece tutta una serie di procedure burocratiche che le imprese più piccole faticano a smaltire. Ma non solo, costa inoltre di più rispetto ai voucher, secondo i consulenti tra il 40% e il 60%, e poi esclude le persone comprese fra i 25 e i 45, di fatto “la fascia d’età di maggior interesse per il dato occupazionale”.